La critica letteraria della Dott.ssa Rita Mascialino, fondatrice dell’Accademia per l’Analisi del significato del Linguaggio Meqrima e dell’Avanguardia Artistica e Letteraria “Secondo Umanesimo Italiano”, si differenzia da tutte le altre in quanto dà ragione del significato profondo e di superficie, conscio ed inconscio dell’arte letteraria e figurativa, ed evidenzia inoltre quanto si perda con la critica tradizionale.
Il Metodo Meqrima ideato dalla Dott.ssa Rita Mascialino presuppone il riconoscimento dell’esistenza del significato oggettivo dell’arte e dei testi artistici, contribuendo così alla conoscenza dei mondi psichici dell’uomo, nonché all’apprezzamento della poesia e dell’arte come espressione delle maggiori profondità insite nella personalità degli umani.
A dimostrazione della validità del Metodo Meqrima, le recensioni di seguito sotto riportate.
Premio Speciale della Giuria (Sez. A) Premio Nazionale di Poesia ‘SECONDO UMANESIMO ITALIANO ®’ II Edizione 2017
Sezione A, Premio Speciale della Giuria
Recensione di Rita Mascialino su “Eravamo più teneri e veri”
“Eravamo più teneri e veri
quando tu cercavi il cielo
nelle gelide notti
della disperazione.Quando l’ultimo abbraccio
abbelliva i tuoi sogni
ed esisteva una visione
ad abbagliarti,eravamo più teneri e veri.”
La poesia inedita di Marinella Cossu Eravamo più teneri e veri esprime la nostalgia per i tempi della giovinezza, dell’adolescenza in particolare vista la presenza di illusioni quali la fiducia nell’amore e in Dio in cui i protagonisti della lirica credevano come in miracoli che potevano sostenere la loro vita. Come è implicito al testo, le credenze sono state cancellate dall’uso della ragione negli anni più adulti e nel presente pare non esistano più come in una lontana eco leopardiana. La poesia comunica tuttavia anche altro: l’epoca in cui c’era ancora la credenza nelle illusioni non è, come ci si aspetterebbe, un’epoca dell’errore, bensì è il tempo in cui
i protagonisti erano più veri oltre che più dolci. Il momento dell’illusione per le belle cose è presentato qui come un momento di verità, dove la natura dell’uomo si mostra senza la verifica dell’intelletto, è spontanea e in questo senso più vera, dove non c’era ancora nessuna astuzia e le speranze non erano ancora state smascherate come illusioni, così che l’illusione sembrava essere portatrice di verità e lo era nel cuore degli umani in quanto le aspettative nutrite dai sentimenti erano ancora integre. E quella per la poetessa è la verità dell’uomo, un uomo semplice che crede nei valori che gli suggerisce il suo cuore buono, non la realtà delle cose. Pur nella sofferenza, il cielo fungeva allora da conforto nel freddo dell’inverno, metafora della disperazione dell’uomo sulla Terra e della sua ricerca di aiuto nel divino, e l’ultimo abbraccio con la persona amata rendeva bello il sonno con sogni di felicità promessa. Così la verità dell’uomo sta per Marinella Cossu nella sua capacità di abbellire la vita con le sue illusioni come avviene nell’età giovanile, mentre con il passare degli anni tale mondo di belle illusioni cade e si mostra una realtà che sconfigge le antiche credenze e lascia l’uomo solo. Più dolci, per via delle credenze in una vita più bella, più veri perché quella è per la poetessa la verità dell’uomo prima che la realtà e la ragione la spazzino via.
Primo Premio (Sez. B) Premio Nazionale di Poesia ‘SECONDO UMANESIMO ITALIANO ®’ II Edizione 2017
Sezione B, Primo Premio
Recensione di Rita Mascialino su “Donna”
“Lo risalii come un fiume
fino alla sorgente
e mi lasciai andare con lui
sino alla foce del mare
dove l’onda s’incontra con lo scoglio
in un orgasmo infinito…Mi coglierà il domani
con parole d’amore sulle labbra
e il grande cielo muto
su di me
e nessuno saprà mai
la grande pena
per diventaredonna.”
La poesia inedita di Marinella Cossu Donna evidenzia attraverso la rappresentazione dell’interpretazione del sentimento dell’amore il dramma insito nell’essere donna, come è in un Leitmotiv della visione del mondo nella poetessa. L’amore avvince la donna con tutta la sua potenza materiale e spirituale in un ambiente drammatico come nella metafora del fiume contro la cui corrente la donna si sforza di andare per poter amare il suo uomo nel modo più profondo possibile, alle origini di un sentimento tanto coinvolgente da sfociare nel mare, ossia secondo la spazialità dinamica della metafora fino ad una situazione di deliquio dell’io e a perdere i sicuri confini dati dalla piccola esperienza in ambito erotico. In questa risalita del fiume e nello sfociare in acque non più protette da alcun argine lo sforzo è tutto della donna, non vi è parola che indichi anche solo allusivamente uno sforzo simile nell’uomo né un suo coinvolgimento al di là di un piacere di ordine esclusivamente sessuale, uomo che pare usufruire del più grande amore femminile caricandone tuttavia il peso sulle sole spalle della compagna. Il sacrificio del darsi unilateralmente è tuttavia inadeguato se riferito ai suoi esiti: la donna si troverà dopo questa grande avventura con le parole dell’amato sulla bocca, ossia con un amore estrinsecato a buon mercato e pertanto con il vuoto del cielo, il silenzio dello spirituale che essa avrebbe agognato di trovare assieme al suo uomo nella sua risalita all’energia nascente dell’eros e alla sua discesa nel più ampio mare a simboleggiare l’annullamento del proprio io in una passione vissuta nella sua totalità di sentimento e intensa estasi mistica di unione con l’altro. Il grande cielo su di essa – o il grande vuoto su di essa – è muto e allora essa e solo essa può conoscere l’immensa pena per diventare donna, per prendere coscienza della sua personalità e di quello che appare come il suo destino, donna capace di amare fino all’estremo, non corrisposta e neppure capita in questo, implicitamente lasciata sola dall’uomo che resta nella superficie della sensazione sessuale senza approfondirne i più grandi echi spirituali.
Premio Speciale della Giuria Premio Letterario Nazionale ‘FRANZ KAFKA ITALIA ®’ VII Edizione 2017
Sezione Poesie, Premio Speciale della Giuria
Recensione di Rita Mascialino
La silloge poetica di Marinella Cossu Le sirene e gli inverni (Massarosa LU: Marco Del Bucchia Editore 2017: Prefazione di Cristiano Mazzanti) si snoda attorno alla complessa immagine delle sirene – e con esse all’emergere di acque e della stagione più fredda, l’inverno. Le sirene, esseri leggendari prodotti dalla fantasia di tutti i popoli e impersonanti le forze oscure delle acque marine e oceaniche, stanno nella silloge come simbolo per la donna, tenuta metaforicamente prigioniera nella solitudine dei mari dai quali non può uscire né parlare propriamente, ma solo far sentire il suo pianto (Le sirene/1, 16). L’inverno è la stagione che custodisce gli spazi di tali simboliche sirene (Le sirene/1, 16), ossia esse stanno al freddo, senza il calore di affetti umani, ma tuttavia, pur in quella situazione infelice, crescono bimbi alla loro ombra (Le sirene/1,16), ossia attendono al loro compito superiore a tutti gli altri. Le donne, pur segregate in luoghi dove non c’è affetto di uomo, curano la specie umana comunque come fiore delle profondità interiori in cui vivono, che loro appartengono e di cui nessuno potrà mai defraudarle. Nella molto intensa lirica Le sirene/2 (26) questi esseri leggendari e misteriosi stanno vicino a un Dio che appare nella loro mente, ciò anche se non considerate dalla comunità degli uomini, in altri termini: l’autostima della sirena-donna non viene scalfita dalla superficialità o dall’arroganza degli uomini – le imprecazioni, gli insulti non la raggiungono neppure (Le sirene/2, 26).
Domina la raccolta un senso di fine del tempo, come vi fosse un arresto o un rallentamento dei ritmi vitali a favore di sensazioni del momento associate molto liberamente, a volte solo per qualche colore condiviso o spesso anche variazioni su di un medesimo tema molto distanti fra loro, così distanti da frammentare le percezioni in pezzi che non paiono ricomporsi altro che in un senso di languido distacco dalla vita goduto sensualmente in una interpretazione decadente dell’esistere. In questo tempo che appare stanco di progettare il futuro ed erra senza obblighi di percorsi da seguire il passato si inserisce con i suoi tanti ricordi, anch’essi presenti in mille pezzi che mai giungono a completare una figura. Così l’immagine del mondo in Marinella Cossu si disfa quasi impossibilitata a trovare forma e con essa senso compiuto, una situazione psicologica che calza peraltro a pennello con quella generale dell’epoca attuale dove il nuovo si inserisce con violenza nel vecchio senza riuscire a imporre il proprio disegno e solo spezzando le trame e le tessiture trascorse. Poesia in ultima analisi, del disorientamento dell’uomo attuale incapace di dare senso al nuovo e incapace di conservare senso al vecchio, tutto in un fermarsi del tempo che coincide con il fermarsi di ogni progetto di vita. Restano solo amate sensazioni di quiete vissute come un porto che non appare come meta di navi, ma come luogo dal quale non più ripartire. Si tratta di un riposo che ha voltato le spalle al mare aperto, un riposo nel quale non possano accadere tempeste a scuotere l’anima che anela al sonno, a un dormiveglia in cui ridurre le percezioni al minimo come flash privati di nessi, come se per Marinella Cossu la sintesi della comprensione non rappresentasse più la meta principe della vita, quasi come a voler fermare il tempo. In quest’atmosfera simile a un dormiveglia la poetessa si lascia cullare e trasportare dalla onde marine, come galleggiando senza nuotare, come corpo non opponente resistenza al moto ondoso. Lo stato psicologico di base espresso nella silloge non è quello di tempeste e marosi, la poetessa non si contrappone a uragani e maree, non lotta per mete ardue e superomistiche da raggiungere, ma solo rivive brandelli di passato staccati dal contesto esperienziale o solo trattenuti in lembi che stanno per un tutto che non si identifica più. Così le età trascorse sorprendono la poetessa come avesse perso il timone della navigazione e gli evento nuovi le appaiono come già visti, già vissuti in quello che è il suo desiderio di non avanzare, di fermarsi al passato dove comunque la vita sembrava avere un senso sebbene ora dimenticato o ridotto in frantumi, un tentativo di fermare il tempo, come già accennato. Poesia per così dire del più profondo profondo dunque, dove si devono ricercare i nessi logici e concatenanti che scarseggiano e solo si accostano in lenta successione immagini su immagini. Niente agitazioni del cuore in queste composizioni, ma solo pulsazioni di languidezza e sensualità portate all’estenuazione. Nella lirica Leggende infinite sopra citata la poetessa trasforma un verso di Federico Holderlin presente nella poderosa poesia An die Parzen, Alle parche, nel suo opposto. In Holderlin si legge tra l’altro:“(…) Denn nie, sterblichen Meistern gleich,
Nur einen Sommer gonnt mir, ihr Gewaltigen!
Und einen Herbst zu reifem Gesange mir,
Dass williger mein Herz, vom sussen
Spielt gesattiget, dann mir sterbe (…).”“Una estate concedetemi, o potenti!
Ed un autunno soli per maturo canto,
ché più consenziente il mio cuore, del dolce
Suono sazio, a me allora perisca! (…).”(Mascialino 1989, 66-70)
Il poeta ha una meta da raggiungere, la parola poetica, creativa, ottenuta la quale potrà morire più volentieri perché null’altro desidera ottenere. Anche Marinella Cossu chiede che le venga dato uno spazio temporale, ma non una stagione né l’altra, bensì solo una notte, qualcosa di oscuro quindi, in cui fioriscono cose non conosciute agli abissi, alle profondità, che siano bellissime e profumate come le rose, delicate e sensibili come i lillà, fiori del buio che ignoti all’oscurità del profondo possano essere conosciuti dalla poetessa che come le sirene vive nelle e delle profondità interiori. Anche la Cossu vuole dunque venire in contato con i regni ignoti, eminentemente spirituali, ma, molto diversamente da Holderlin che dà il benvenuto al silenzio del mondo delle ombre purché abbia dapprima potuto esprimere senso con la parola poetica – gli basta avere sperimentato questa una sola volta nella sua vita – , la poetessa chiede il dono della morte non collegato al conseguimento della parola creativa, una morte tanto desiderata che si fa bella come un giardino frusciante di fiori ed erbe, come un infinito dove perdersi nell’oscurità. Le richieste della Cossu – rivolte verosimilmente alla divinità – non appaiono di primo acchito collegate in una consequenzialità che dia loro senso propriamente compiuto, si riferiscono a singoli desideri non organicamente impostati: i fiori del profondo come possibilità di espressione e di conoscenza di quanto è nascosto nell’oscurità, la solitudine delle stelle, i semi che crescono nei campi e che si alzano come una preghiera, la morte come il dono meno positivo di tutti, i ricordi dell’infanzia, immagini che si susseguono come staccate le une dalle altre. Nell’ultima strofa, in cui la poetessa chiede di ricordarle l’infanzia e le sue fiabe, le sue credenze nel mondo del meraviglioso, sembra esserci tuttavia un ripensamento che si manifesta dopo aver chiesto un invito per morire. All’analisi risulta altro, anzi quest’ultima richiesta chiarifica e collega coerentemente tutte le altre pur frammentate e dà loro il senso più vero. Abbiamo ripetuto come nelle poesie di questa silloge i nessi non vengano espressi, ma restino celati per buona parte nel più profondo inconscio creativo e intuitivo della poetessa. In questa poesia viene in soccorso alla comprensione la spazialità del ricordare l’infanzia. Si tratta di un percorso all’indietro, una regressione al passato più lontano, ciò che spazialmente appunto è come un voltare le spalle alla vita, un rifiuto o una rinuncia ad avanzare, un ritorno che annulli il cammino già percorso come a non voler vivere e ciò si collega coerentemente alla morte poco prima richiesta e visualizzata come un invitante giardino di fiori. Entro questo ambito schiuso dall’analisi anche la solitudine delle stelle desiderata come dono dalla poetessa si rivela adatta all’atmosfera di morte: le stelle rappresentano l’inorganico più distante dalla vita. I semi che crescono come in preghiera verso l’alto si associano anch’essi a sostenere le richieste della poetessa. E anche la prima strofa adesso acquisisce il significato più profondo e più sconvolgente, un significato che si collega agli altri negli schemi semantici che strutturano la poesia: non la parola poetica holderliniana vuole la Cossu, ma la conoscenza del regno sconosciuto, buio, simbolo non di vita anch’esso, un buio che con le rose e i lillà si collega al giardino frusciante della morte della terza strofa, una conoscenza quindi del regno chiuso per eccellenza alla vita, regno che la poetessa vorrebbe conoscere attraverso la sua parola poetica.
Poesie complesse e profonde quelle di Marinella Cossu le quali, accessibili immediatamente al lettore sul piano delle singole affascinanti e raffinate immagini, più in profondità di quanto possano dare le singole immagini sul piano estetico ed intuitivo possiedono e forniscono comunque la visione del mondo ricca di significato che l’analisi ha dimostrato.
Premio Speciale della Giuria Premio Letterario Nazionale ‘FRANZ KAFKA ITALIA ®’ VI Edizione 2016
Sezione Poesie, Premio Speciale della Giuria
Recensione di Rita Mascialino
La raccolta poetica di Marinella Cossu “Celesti Geometrie” (Empoli-Firenze: Ibiskos-Ulivieri: Prefazione di Cristiano Mazzanti) presenta cinquantacinque liriche che cantano la visione del mondo della poetessa con parole e accenti intensamente toccanti. Si tratta di un mondo che, radicato nella sensibilità umana e nella patria dell’uomo, la Terra, si volge verso l’alto dei cieli e là riflette la sua geometria che si fa celeste spiritualità. Toni di vari poeti, tra cui Pascoli e Carducci, si fanno sentire sotto l’elaborazione che ne dà la poetessa che sempre rende originali gli echi stessi nel nuovo contesto in cui si situano trasformati nella diversa visione esistenziale. Sparsi ovunque e predominanti sono gli echi hölderliniani non solo in singole immagini quali, tra le molte altre e per dare un esempio, quella relativa proprio al padre etere che si fa nella Cossu celeste geometria cui essa sempre guarda e si ispira volendola condividere, ma anche e soprattutto nel ritmo dell’adagio, ossia dell’incedere maestoso delle parole e dei versi che informa la raccolta, un incedere adatto al rango per così dire del metaforico celeste. Qui veramente la Cossu fa opera estetica dalla notevole risonanza semantico-emozionale, riuscendo a conferire all’espressione solennità e armoniosa lapidarietà pur nella cornice di sentimenti a misura umana e non superomistica come al contrario si verifica in Hölderlin.
Per chiarire e giustificare quanto affermato diamo qui un cenno di analisi del significato per somiglianza e per contrasto tra alcuni versi dei due poeti, così da mostrare quanto diverse possano essere le pur presenti assonanze in autori che trattano temi per qualche aspetto affini.Friedrich Hölderlin (in Mascialino 1989: Lebenslauf, 85)
“(…) Denn nie, sterblichen Meistern gleich,
Habt ihr Himmlischen, ihr Alleserhaltenden,
Daß ich wüßte, mit Vorsicht
Mich des ebenen Pfads geführt.
Alles prüfe der Mensch, sagen die Himmlischen
Daß er, kräftig genährt, danken für alles lern,
Und verstehe die Freiheit,
Aufzubrechen, wohin er will.”
Trad. di R. Mascialino (1989: Corso della vita, 86)“(…) Perché mai, simili a maestri mortali,
Avete o celesti, o onnireggenti,
Ché io sapessi, con prudenza
Me condotto in piano sentiero.Tutto provi l’uomo, dicono i celesti,
Affinché, nutrito di energia, a rendere grazie per tutto impàri, E la libertà capisca,
Di aprirsi il cammino là, dove vuole.”Marinella Cossu (2015: 14, Le voci):
“Ma tu apri e forzi
ciò che vuoi,
mai mi guidi
per facile sentiero.
Lo so.Fa che io parli il linguaggio del cielo
e offrimi
la coppa delle rosee guidata dal discorso
udrò le voci
del tempo antico.”In Federico Hölderlin le cose dello spirito sono le più ardue, non si raggiungono battendo sentieri in pianura, accessibili a tutti perché non pretendono particolari abilità e sforzi per essere percorsi, mentre per giungere in alto ci sono appunto salite concrete e metaforiche che implicano difficoltà e sacrificio, nonché quella rinuncia alla prudenza, al piccolo passo della norma, non consoni al raggiungimento di grandi vette. Il poeta dichiara con fierezza rivolgendosi ai suoi maestri celesti e non solamente uomini terreni e mortali, che essi gli hanno insegnato a sperimentare tutto, ad esaminare tutto, come, secondo Hanser (1984: 1018), nei Tessalonicesi di San Paolo (5, 21): “Ma esaminate tutto e ritenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni aspetto di male” (Sacra Bibbia 1963: 1255). San Paolo inserisce la necessità di esaminare e di provare quindi tutto per poter apprendere la capacità di distinguere il bene dal male e di evitare quest’ultimo, mentre Hölderlin trasforma il pensiero relativo alla sperimentazione paolina ponendo all’uomo la meta corrispondente alla propria personalità, quella di saper affrontare la libertà di essere come egli voglia, di giungere là dove la sua volontà lo conduca, il tutto in un crescendo di superomismo di natura precipuamente germanica, idealistica. Nella lirica Le voci l’Autrice si rivolge pure al padre etere di Federico Hölderlin che nei suoi versi è adombrato nell’essere silenzioso provvisto di nobile corteggio, le onde degli oceani, ciò che per altro dà al “mondo cilestrino” un’estetica di straordinaria bellezza. La terminazione in “-ino” del termine “cilestrino” conferisce tuttavia un tocco di diminutivo al cielo stesso e ai celesti del tutto assente in Hölderlin che esprime spazialità opposte. Pur citando Hölderlin in altra lirica l’eterna gioventù degli dei e il sentimento fanciullo, il più creativo, che essi nutrono nell’uomo (Mascialino 1989: 81-82, Die Götter, Gli dei), l’assonanza con il gioco delle onde dell’Autrice non potrebbe essere più diversa proprio grazie anche alla presenza del suffisso del diminutivo che in qualche modo introduce la misura umana, quasi che i celesti e coloro che vivano anch’essi la vita del cielo giochino essi stessi come bimbi con i giocattoli adatti agli enormi rapporti spaziali ad essi consoni, ossia con gli elementi, nella fattispecie con le onde dei mari anch’esse azzurre come il cielo e fuse con questo. Marinella Cossu, capace di cosmico sentire, non si erge verso la meta superomistica hölderliniana, ma, pur avendo anch’essa una meta che oltrepassa i limiti dell’umano, quella di parlare il linguaggio del cielo – metonimia per i celesti e per chi vive pure una vita celeste, in cielo –, vorrebbe imparare quel linguaggio o quei linguaggi per udire voci antiche, voci del passato, voci comunque sempre umane, per ricongiungersi quindi, sotto la guida dei celesti e del linguaggio adatto a compiere il miracolo, con gli umani che non sono più. Nella celebre lirica An die Parzen, Alle parche (Mascialino 1989: 66-67), Hölderlin chiede appunto agli dei di concedergli la parola poetica, capace di esprimere quanto urge nel suo cuore, nella sua mente, nel suo smisurato sentire, non per congiungersi con gli antichi, con coloro che comunque non sono più, bensì per poter vivere almeno per una volta come gli dei, ciò nella hybris che connota il suo poetare nell’aspetto più profondo, nell’aspetto che lo ha reso grande nella memoria del suo popolo, dei popoli. Sentimento più umano nella Cossu dunque malgrado l’eco di ritmi e temi del tedesco. La “coppa delle rose” stesse si associa al “duftenden Becher”, al “profumato calice” (Mascialino 1989: Andenken, Memoria 133-134, 136) che tuttavia è “Des dunkeln Lichtes voll”, “di buia luce colmo”, ossia la Cossu ha trasformato in rose delicatamente profumate il più spaventoso ossimoro rappresentato in una luce provvista della propria negazione, del proprio contrario, ciò che assieme al profumo stesso allude a qualcosa di stordente e ottenebrante in grado di dare una altrettanto oscura pace, l’unica pace possibile per il poeta, quanto mai sinistra, quasi Hölderlin chiedesse sul piano semantico simbolico di non avere più la luce della ragione pur di avere quiete e serenità nel suo animo contrastato, ossia chiedesse la luce ottenebrante della follia per non pensare più, per non sentire più le squassanti stimolazioni verso l’assenza di misura, verso l’infinito – ricordiamo che la poesia Andenken, tra le più stupende, fu scritta dopo il primo accesso di pazzia furiosa subito dal poeta all’inizio per così dire ufficiale della schizofrenia paranoide che lo colpì. Al contrario, le rose di Marinella Cossu sono offerte dal padre etere alla poetessa in veste di celeste cielo ed evocano la sensazione di acqua di rose e petali di rose dal profumo soave da porgere come filtro che possa fare il miracolo di unire il presente al tempo trascorso, metonimia per le persone che questi tempi trascorsi hanno vissuto. Il linguaggio dei celesti di Marinella Cossu non è solo quello degli dei, ma è anche e soprattutto quello di coloro che abitano, aggiungiamo, ormai i cieli, diventati pertanto celesti anch’essi e con i quali la poetessa grazie alla sua parola poetica vorrebbe ricongiungersi. Domina quindi nell’Autrice la meta più umana, quella relativa alla continuazione in qualche maniera della vita stessa assieme a tutta l’umanità trapassata, questo in un ambito di universale valenza, assieme a trapassati bimbi in una sensibilità di valenza più individuale e personale, come la dedica della silloge “Ai due gemelli” rimanda. La spinta all’apprendimento del linguaggio celeste nella Cossu, abbandonati gli hölderliniani sentieri cosmici che conducono nella spazialità più profonda di questo sentire alla dissoluzione dell’identità finita dell’uomo, ciò che è quanto il poeta tedesco in ultima analisi brama in un desiderio estremo di morte, tale spinta dunque nella Cossu di apprendere il linguaggio celeste e più creativo è mirata all’attingimento dei più umani sentimenti, alla dolcezza di riunirsi con chi non è più, unione che la poetessa realizza appunto attraverso il nuovo linguaggio appreso dai celesti presso i quali stanno coloro che non sono più su questa Terra, linguaggio che, al di là dell’afflato religioso, ha la qualità poetica, creativa per eccellenza nella vita umana. Agli dei la poetessa chiede non l’ottenebramento per dimenticare, ma la fede per comunicare con chi non è più e ricordare per sempre. Ben diverso dal sentire hölderliniano di cui sono state evidenziate assonanze e profondamente commovente è il sentire dunque espresso con particolare aereità e delicatezza da Marinella Cossu nella sua raccolta Celesti geometrie, della cui generale risonanza semantico-emozionale è stato dato qui un cenno analitico.
Premio Speciale della Giuria (Sez. III) Premio Nazionale di Poesia ‘SECONDO UMANESIMO ITALIANO ®’ I Edizione 2016
Recensione di Rita Mascialino su “Sale di Lacrime”:
La poesia di Marinella Cossu Sale di lacrime si presenta subito già nel titolo nella sua ambivalenza semantica: sono stanze di lacrime, ma anche lacrime salate. La stanza, metafora dell’anima, della propria interiorità, ha la finestra aperta verso il blu del cielo di cui condivide l’aereità, l’impalpabilità, la simbologia della spiritualità, blu che è con il suo effetto tranquillizzante colore adatto per eccellenza alla quiete che rende possibile l’introspezione. Sembrerebbe di primo acchito che le lacrime siano quelle della protagonista che, affacciata alla finestra della propria casa e guardando i cieli blu o guardando in se stessa, piange lacrime salate ricordando l’infanzia e potrebbe anche essere così. Nella seconda strofa tuttavia la spazialità del blu cambia e introduce un importante cambiamento semantico. Spazialmente considerato, dunque, il blu della seconda strofa è quello dell’interiorità della poetessa, ciò che differenzia il blu della prima. Il blu che inonda l’immagine inerisce nella prima strofa a lacrime di bambini che appaiono come stregati alla finestra, metafora dell’anima della poetessa, come incantati ad essa. Si tratta di bambini che piangono fuori da quella finestra stando essi nel cielo turchino, come attratti da qualcuno che li pensa intensamente affatturandoli, stregandoli, tenendoli così vicino a sé. Il sale delle lacrime è dunque quello del pianto dei bambini che stanno sì alla polisemica finestra nel blu intenso, appunto turchino, ma fuori comunque da essa, non potendo entrare per qualche motivo. Il citato blu della seconda strofa si differenzia da quello precedente in quanto appartenente a chi sta dentro la stanza come evidenzia la presenza dell’aggettivo possessivo “mio” riferito alla protagonista proiezione della poetessa Marinella Cossu. Questa sta affacciata in contemplazione sia alla finestra della sua casa sia a quella che conduce in se stessa, nella propria interiorità più profonda che si unisce cosmicamente attraverso il colore blu con i cieli fusi a loro volta con il colore delle acque in una unione di terrestre e celeste. Tale blu interiore della protagonista viene vivificato dal vocio lieto di bimbi – il cicalare nel contesto infantile come è presentato nella poesia è qualcosa di sereno – al mattino sullo sfondo di mare e cielo, un vocio che, dato l’ambito introspettivo in cui si svolge la contemplazione della poetessa, appartiene alla nostalgia più che o anche oltre che alla realtà. La terza e ultima strofa inizia con una forte eco ritmica leopardiana di rimpianto e nostalgia per le illusioni e le attese del passato che non si sono realizzate, le “speranze” e i “cori” di A Silvia, attese della prima giovinezza, attese di vita. Tale tuffo nei ricordi ammassa immagini una dopo l’altra alla finestra aperta sul proprio passato in una successione che pare non poter finire mai. Su questo scenario fatto di cieli infiniti e di distese immense di acque che si fondono insieme in tonalità di turchino, blu e azzurro, riposano, dopo le lacrime fuori dalla finestra versate per non poter entrarvi come esseri in carte ed ossa e sullo sfondo di scherzi nel lieto cicalare udito nell’interiorità della poetessa, angioletti bianchi stesi di lato e appoggiati all’etere come figure di affreschi e conformazioni di nubi bianche destinate a non permanere malgrado l’affatturamento attuato dalla protagonista. In altri termini: si comprende come i bambini di cui nella poesia siano bimbi che sono diventati angeli e che appartengono alla sfera dei ricordi, dei desideri, dei cieli, ma non più alla Terra. Tali bimbi non entrano nella casa concreta della protagonista, ne stanno fuori in quanto non possono più prendere parte alla vita di sangue e carne. Stanno tuttavia nei pressi della finestra come presi in un incantesimo che li attrae e tiene incatenati senza però che possano oltrepassare la soglia che divide la vita dalla morte, stanno appunto fuori dalla finestra della casa nella magia affatturata dalla poetessa che li vuole legati a sé, per poi scendere nell’altra casa, nell’anima della stessa diventendo nostalgia di vita e da lì proiettarsi quali angeli nell’infinito dei cieli, in quella che è diventata la spazialità evanescente che li connota, quella spirituale.
Premio Speciale della Giuria Premio Letterario Nazionale ‘FRANZ KAFKA ITALIA ®’ V Edizione 2015
Sezione Poesie, Premio Speciale della Giuria
Recensione di Rita Mascialino su “Un giorno come mille anni”:
La raccolta di poesie di Marinella Cossu “Un giorno come mille anni” (Massarosa LU: Marco Del Bucchio Editore: Prefazione di Cristiano Mazzanti) appare come poesia di afflato religioso, dove domina su tutto la vita ultraterrena e l’aspirazione ad essa come desiderio di raggiungere l’eterno infinito. Tutte le religioni, cristiana e cattolica comprese, hanno come perno centrale la vita dopo la morte fisica, ossia sono compagne dell’ultimo viaggio dopo la perdita del corpo, e la speranza di una buona accoglienza, nelle culture di arcaica memoria patriarcale, da parte di un padre buono, unitamente ad una mamma buona. Le poesie di Marinella Cossu vertono soprattutto, anche se non solo, sulla fine della vita terrena e l’inizio della nuova vita nell’al di là. Ora la vita priva del corpo
materiale significa perdita di tale corpo le cui componenti si dissolvono nell’ambiente e con essa dell’individualità umana, di tutto quanto conosciamo in quanto appreso durante l’esperienza accumulata nell’esistenza. Il desiderio di infinito che pervade il poetare dell’Autrice fa tutt’uno con il desiderio di dissolversi nell’infinito e, in questo senso, di abbandonare la vita. Di fatto i riferimenti alla vita terrena sono spesso angoscianti e la fine della stessa viene sentita se non come una liberazione senz’altro come qualcosa di non lieto. In altri termini, nella poesia della Cossu non c’è la gloria entusiastica dell’unione con la divinità come nei grandi mistici, ma c’è il desiderio di tale unione vissuto con mestizia e anche intriso di dubbi. Facciamo seguire qual che esempio. In È tempo (13), con cui inizia la silloge, Dio capisce che il canto rivolto a lui da parte della protagonista del componimento è quello di chi abbia l’acqua alla gola, di chi non riesca più a continuare la vita, il tempo delle nozze è arrivato e si tratta di nozze con Dio, quindi non come esperienza della vita terrena, per altro anche l’acqua alla gola è descritta come acqua nella gola che più ancora rende l’idea del tipo di angoscia e di funzione di quest’acqua: un’acqua di morte per gli umani. Ci sono ulteriori accenni associativi alla cessazione della vita, il gorgogliare di balbettii cadenti già corrotti, con la citazione della corruzione che si sposa pure alla morte del corpo, infine il colloquio con Dio che allude sì alla possibilità di rivolgere la propria preghiera a Dio, ma anche alla nuova vita in cui tutti i discorsi si verificano in Dio, una vita ultraterrena. In A se stessa/1, echeggiante nel titolo Leopardi e diversa nel contenuto dal celebre sonetto, la poetessa esprime il desiderio di conoscere se stessa profondamente e veritieramente e anche il suo desiderio di poter andare un giorno come un bagliore di luce presso Dio, ma appunto si tratta di una speranza messa in dubbio esplicito dalla presenza dell’avverbio forse oltre che nei citati limiti di un bagliore di luce come propria presenza residua o nuova, non di altro. Anche la preghiera serve all’Autrice come mezzo per allontanarsi dal mondo e con esso, aggiungiamo, dalla vita:
Dopo le preghiere/ nulla mi manca:/così lontana sono dal mondo/in quest’ora/che non mi occorre più nome (30). Nella preghiera dunque l’orante perde i limiti del proprio corpo, della propria individualità, sperimenta già come sarà dopo l’esperienza terrena, dove non sarà più necessaria l’identità che in ogni caso si perderà, in altri termini: per la l’Autrice pregare è, in una rielaborazione originale delle parole di San Paolo, come morire, sperimentare paradossalmente la vita della o nella morte, sperimentarlo ogni giorno come il titolo della poesia dichiara: Il compito quotidiano. Per terminare la breve esemplificazione, in Come bambino (39) si legge nella chiusa: Sono vento per gli altri:/lassù dove sono gli Angeli/e la luce si fa nulla., versi meravigliosi ed emozionalmente molto intensi in cui la luce stessa, che è quanto resterà della trasformazione del corpo dopo la morte, diventerà nulla là dove stanno gli angeli e per gli altri rimasti sulla Terra il morto sarà vento impalpabile e anonimo. Forti e stupende le poesie di Marinella Cossu, capaci di esprimere l’incontro della vita con la morte nella spiritualità della promessa religiosa, pur senza sicurezze, ma con fede, con amore, così da vivere un giorno come mille anni, da vivere la breve vita così profondamente da sembrare lunghissima in un forcing del tempo che fa percepire l’esistere al di là del quotidiano fluire.