Relazione del II° Convegno Internazionale del GRM Gruppo di Ricerca Meqrima dell’ Accademia Italiana Meqrima:
Il significato dei testi letterari in rapporto a cultura e democrazia
In quest’ epoca di grande crisi dei valori culturali, un po’ in tutto il mondo, certo in diversa misura, ma sempre comunque in dimensioni ragguardevoli, l’Accademia MEQRIMA svolge un ruolo di grande rilievo ed essenziale nel collegamento fra le diverse culture e nella valorizzazione dell’arte sia letteraria che figurativa. Il Metodo di ricerca del significato oggettivo del linguaggio ideato dalla presidente dell’Accademia consente l’ingresso dell’uomo al mondo della conoscenza e comprensione di quanto il canale artistico dà in ambito letterario e artistico e, al tempo stesso, consente la trasmissione e la diffusione della letteratura e dell’arte dei popoli in un livello di verità dei loro prodotti culturali. Poiché la letteratura è patrimonio e ricchezza espressiva di tutti, l’importanza del dialogo fra lingua e realtà trova nell’attenzione al dato oggettivo un momento d’incontro ineliminabile, dove la soggettiva interpretazione nulla può per la comprensione dell’uomo, delle sue potenzialità, del senso della vita.
Il problema del significato e della sua definizione, unito al desiderio della sistematizzazione del sapere in ambito letterario e artistico, è al centro del movimento di pensiero fondato da Rita Mascialino come “Secondo Umanesimo Italiano”, questo in quanto esso riprende il fulcro rivoluzionario dell’Umanesimo: la consapevolezza cioè che esista un significato oggettivo dei testi letterari, un significo che essi portano in sé anche a prescindere talvolta dalla consapevolezza degli autori – l’inconscio forma parte consistente dei messaggi artistici e solo l’analisi ne può dare ragione e molto al di là di quanto ideato consapevolmente dagli autori stessi – e che questo significato vada identificato attraverso analisi ed esegesi che oltrepassino il livello dell’impatto soggettivo con l’arte con competenza teorico-metodologica e contro qualsiasi contraffazione semantica intenzionale.
L’esperienza MEQRIMA crea e consacra un modello che ponendosi come sintesi e aggiornamento di quella importante fase di sviluppo culturale che è stato l’Umanesimo, ne riprende i principi fondamentali e le finalità più alte in ambito culturale, scientifico e democratico – non vi può essere democrazia dove manchi il rispetto del significato delle idee proprie e altrui, delle opere letterarie e artistiche in primo luogo.
L’idea centrale della Mascialino coglie tre indicazioni:
- La necessità della radicale rottura con la tradizione pragmatistica e con ciò il rifiuto della libera interpretazione soggettiva quando venga ritenuta il significato oggettivo dell’arte;
- L’idea che il luogo di questa rottura deve essere il linguaggio, perché è il linguaggio che può veicolare errori e pregiudizi, oppure all’opposto, essere il luogo di difesa della verità;
- Infine, la indissolubile connessione fra i fatti, le parole e le idee.
Poiché linguaggio e conoscenza sono indissociabili, solamente il linguaggio può strutturare e organizzare l’informazione acquisita dal senso, così che eventuali Torri di Babele sono da ascriversi ad incapacità di analisi dei significati di cui è portatore il linguaggio di parole.
Interpretare il significato delle opere letterarie è un’operazione strettamente legata all’analisi testuale e significa leggere attentamente e con competenza specialistica un testo, comprenderlo in profondità attraverso l’analisi dei suoi elementi di significato, del significante e delle loro relazioni, nel mentre si entra in rapporto con tutto questo utilizzando il proprio bagaglio di informazioni che deve essere quanto più vasto possibile.
Ma veniamo ora all’intento linguistico-culturale.
Sembra ormai evidente che la storia mondiale del prossimo futuro sarà segnata dall’incontro e dallo scontro delle culture, scontro che si avrà quanto meno si conosceranno le culture nel vero significato che le connota. In particolare, un’Europa democratica delle culture dei popoli potrà sorgere solo superando la confusione delle libere interpretazioni dei testi letterari che si pongono fuori dalla conoscenza dei popoli, delle loro identità. Accettare democraticamente la cultura dell’altro non significa non capirla o travisarla, ma significa comprenderla nella sua verità quanto più ampiamente e profondamente possibile. Alla base degli equivoci e degli scontri sta l’incomprensione dell’altro, di se stessi e il Metodo di Rita Mascialino per l’individuazione del vero e oggettivo significato della cultura e dei testi letterari in primo luogo, appare come un motivo di rinascita e di progresso.
Tocqueville ha scritto che le crisi della democrazia si superano con più democrazia ed oggi possiamo aggiungere che esse si superano abbandonando ogni riduzionismo procedurale e dando alla democrazia più contenuti sostanziali e più sensibilità culturale. A ciò è funzionale il Secondo Umanesimo Italiano che l’Italia riprende e perfeziona dal grande Umanesimo, dal suo nucleo rivoluzionario, un’Italia che deve ricordare il suo grande passato non solo come nozionismo informativo, ma per prendere coraggio e proseguirne come figlia le istanze positive interrotte dalla lotta contro la cultura. Rita Mascialino afferma che almeno le opere dei grandi Autori letterari vadano rilette e indirizzate all’identificazione del loro significato, del loro senso e il suo Metodo risulta essere una via maestra per questo, un Metodo che non lascia spazio a mistificazioni di nessun genere.
Non si tratta solo di riconsiderare tutta la produzione letteraria, nei testi del tempo, ma di costruire l’insieme dei rapporti culturali da diffondere in una lingua chiara e precisa tale da essere tramandata al di là di pretenziose quanto ingannevoli e banali interpretazioni.
La cultura è sempre stata e resta più che mai il più potente fattore d’identificazione, in cui stanno valori essenziali e imprescindibili.
La democrazia delle culture accoglie la pluralità delle culture così come già sono, non vuole fare violenza ad esse, ma aiutarle a convivere nella società politica, le accoglie nella comprensione della loro verità, non nei falsi semantici di qualsiasi tipo, adatti a nutrire le più pericolose Torri di Babele, come accennato.
La cultura è ciò che riceviamo dalla tradizione, ma che resta a noi accettare o rifiutare, far morire o fruttificare. La cultura è consapevolezza, non già passività, per cui al centro di essa sta e deve stare il significato delle opere delle varie arti: letteraria e artistica in generale. Senza il significato oggettivo della letteratura e dell’arte non si ha cultura, ma solo pseudocultura e il Secondo Umanesimo Italiano si impernia proprio su questo, sulla ricerca dei contenuti semantico-emozionali di verità delle opere letterarie e artistiche intrinseci alle opere stesse, molto al di là quindi della libera interpretazione del significato che vede la proiezione del mondo interiore dell’interprete nell’opera stessa, svisandone il significato e privandola con ciò di qualsiasi significato in sé. Solo attraverso l’identificazione del significato e la comprensione del significato, una cultura potrà dirsi democratico luogo di ricerca del vero così da avere un senso, il suo senso per l’umanità.
Per concludere qui un discorso che porterò avanti nel Gruppo di Ricerca: tutto ciò è possibile solo se le culture dei vari popoli non sono intese come mondi chiusi, impenetrabili all’interpretazione, alla comprensione, ma come luoghi di ricerca dell’identità dell’uomo nel rispetto dell’uomo e della sua civiltà; e la chiave che apre le porte di tali mondi altrimenti chiusi perché in mano alla soggettività babelica di ciascuno si chiama identificazione del significato, come nel Secondo Umanesimo Italiano con il quale l’Italia può dare il suo grande contributo alla costruzione di un’Europa dei popoli, di una cultura democratica, come già lo ha potentemente dato nel suo passato dove si è fatta faro per l’Europa.
Di seguito la locandina e il programma del II Convegno Internazionale del GRM tenutosi il 27 Maggio 2016 presso il Liceo Artistico Statale “A.Modigliani” di Padova:
Relazione del Convegno Internazionale dedicato a Hans Christian Andersen “Al di là della fiaba”
Testo critico di Marinella Cossu
7 luglio 2018 “Sala I Talenti” Fucecchio (FI)
AL DI LA’ DELLA FIABA
Nella verde Fiona , cuore a sua volta e “giardino della Danimarca”, e proprio ad Odense, città dall’origine favolosa, una delle più antiche città del Nord, tanto antica che la fondazione ne è attribuita addirittura al grande padre Odino, nacque il 2 aprile 1805 uno dei più grandi spiriti danesi, il re della fiaba Hans Christian Andersen.
C’era una volta – così verrebbe di fatto di cominciare questo intervento dedicato al grande scrittore danese, tanto che il poeta stesso ha voluto interpretare in chiave di fiaba tutta la sua vita (cfr. La fiaba della mia vita).
Le fiabe di Andersen fanno parte dell’infanzia di tutti noi anche se hanno oltre 100 anni.
Lette oggi, non hanno perso nulla della loro freschezza originaria: perché sono senza tempo, appartengono ormai al nostro immaginario collettivo e nulla le potrà mai smuovere o ridurre.
Non di rado sono scritte più per gli adulti che per i piccoli. E hanno uno strano potere: aiutarci a rileggere la nostra esistenza proiettandola verso orizzonti più vasti e inimmaginabili. Anche quando la vita non sembra sorriderci affatto.
Quelle di Andersen sono – anche, e forse soprattutto – fiabe e storie per grandi.
E’ lo stesso autore a rivendicarlo con forza: “Le mie fiabe sono più per gli adulti che per i bambini, che possono solo comprendere le cornici, gli ornamenti. Soltanto un adulto maturo può vedere e percepire i contenuti. La semplicità è solo una parte delle mie fiabe, il resto ha un sapore piccante”.
Sostenuta da questa consapevole ripulsa di ogni concessione all’ingenuità, la straordinaria padronanza narrativa dell’autore si può così distribuire sui più differenti registri di scrittura, e Andersen può scrivere qui con spirito creaturale e francescano, là con pietà e dolore, là ancora con ironia acre e cattiva.
Andersen stesso dice delle sue fiabe: “Mi stavano nella mente come un granello, ci voleva soltanto un soffio di vento, un raggio di sole, una goccia d’erba amara, ed esse sbocciavano”. E’ questa dimensione complessa, piena, consapevolmente adulta che fa delle pagine di Andersen un capolavoro della “letteratura pura”.
E ogni fiaba ci diventa più cara quando ne conosciamo la genesi creativa, quando sappiamo del Brutto anatroccolo come nacque e come maturò, da quel giorno in cui Andersen, triste dopo un insuccesso teatrale, vagando per le dipendenze del castello dov’era ospite, scorse un uovo d’anatra covato da una gallina e cominciò La storia di un’anatra, fino al momento in cui, pieno di giubilo per la festosa accoglienza in un altro castello, tramuta l’anatra in cigno e tutto finisce col volo vittorioso del maestoso uccello.
La sua vita si rispecchia nelle fiabe, basta leggere Il brutto anatroccolo per convincersi che si può nascere anche poveri, rifiutati ed emarginati e raggiungere lo stesso traguardi di gloria.
Come però nelle sue fiabe il bene è superiore al male, così a lui premeva soprattutto far passare il messaggio che nella vita non bisogna mai darsi per vinti. Basta crederci, sorretti da quella certezza posta nell’incipit dell’autobiografia: “La storia della mia vita dirà al mondo ciò che essa mi dice: esiste un Dio amoroso, che conduce ogni cosa a miglior fine”.
E’ questo il segreto delle fiabe di Andersen, alcune affondano le loro radici nella tradizione popolare, ma per la maggior parte sono completamente originali. Andersen riversa in questi racconti, che molto spesso, a differenza per esempio dalle fiabe dei fratelli Grimm, hanno per protagonisti degli animali, i temi che più gli stanno a cuore, trasfigura nelle vicende vissute dei suoi personaggi l’emarginazione e il senso di esclusione che lui stesso ha sperimentato su di sé. Molti dei suoi personaggi sono dei “diversi” – basti pensare oltre che al brutto anatroccolo, alla sirenetta, al soldatino di stagno – e spesso restano tali anche alla fine della storia.
Andersen, viaggiatore instancabile, ospite delle corti europee, dei nobili castelli danesi, si nutrì di tutte le letterature e di tutti i paesaggi, ma le radici della sua poesia sono nella terra danese, egli è forse il più danese di tutti gli scrittori. In fondo al cuore egli serberà sempre il mondo della sua infanzia: l’immagine della madre povera, il piccolo giardino di cipolle e prezzemolo sul tetto che vediamo rifiorire nella Regina della neve.
Negli ambienti aristocratici che la celebrità gli dischiuse, non si scordò mai delle proprie origini popolane e, pur essendo un assiduo lettore della favolistica mondiale, fonte di tutta la sua poesia restò sempre quel mondo fantastico che gli si rivelò quando, bambino, ascoltava, nelle lunghe veglie, i racconti della povera gente. La grandezza e l’originalità di Andersen derivano in gran parte dalla sua fede; in quel mondo di fantasmi che esprimono gli spaventi e le speranze della vita, come la semplice gente del popolo, crede e crea.
Come mette in evidenza Vincenzo Cerami nell’introduzione al volume Fiabe e storie Andersen “cambia radicalmente la prospettiva della fiaba”. Prima di lui maghi, streghe, gnomi, draghi, fate e orchi erano figure dotate di poteri speciali, dalla sapienza impenetrabile, misteriosa, ignota al lettore. Andersen, al contrario, opera una sorta di umanizzazione di animali e cose, “mettendo in scena protagonisti di sconsolata umanità, immergendosi in creature che per il semplice fatto di non esistere in natura sono segretamente afflitte da un rovello interiore”.
Le più belle fiabe di Andersen sono quelle dove parlano gli animali o le cose: accade a lui un po’ quello che su un altro piano accade a Walt Disney, il cui disegno si fa artificioso, convenzionale quando lascia il mondo delle cose o degli animali per un mondo più razionale, il mondo degli adulti e consapevoli esseri umani.
Andersen ha portato nella fiaba una forma di spiritualità “maggiore”, nelle sue fiabe non ci sono finali felici e contenti ma proiezioni nell’infinito.
Com’egli stesso scrive: “Io non ho voluto, come invece ha fatto de la Motte Fouqué nella sua Ondina, che la sirena guadagnasse un’anima immortale solo ed esclusivamente grazie ad un estraneo; grazie ai sentimenti di una persona esterna. Trovo che sia una morale sbagliatissima. Sembra che la conquista della salvezza eterna dipenda da una questione di fortuna, e io non sono assolutamente disposto ad accettare una visione simile. Io ho voluto che la mia sirenetta facesse una scelta, il che è molto più naturale. E molto più divino”.
Nelle fiabe di Andersen il lieto fine non è obbligatorio: la piccola fiammiferaia muore di freddo, la sirenetta non può vedere realizzato il suo amore per il principe, il soldatino di stagno brucia nel fuoco. Ma la morte è sempre descritta in una trasfigurazione fantastica, come la via verso un paradiso cristiano in cui tutto è dolce e i sogni si realizzano.
Una delle caratteristiche delle storie di Andersen è proprio la capacità di uscire costantemente dagli schemi, la capacità di trascendere da tale esigenza per raggiungere, come nel caso della Sirenetta e di molte altre storie , un finale apparentemente tragico, ma positivo in un’ottica superiore.
Andersen è un grandissimo poeta che riesce a mettere l’assoluto e la grande compassione cristiana nelle piccole cose di un quotidiano a prova di bambino, dove l’elemento magico è costituito dal sentimento.
Andersen scopre nuove sorgenti del meraviglioso, la sua fiaba rimane il luogo di tutti i possibili. Andersen tocca la realtà con la sua bacchetta magica e la tramuta nell’incantevole. E’ indifferente donde abbia preso gli argomenti delle sue centocinquantasei fiabe che, in parte, sono ricordi di fiabe udite da bambino, in parte sono derivate da racconti popolari del suo e di altri popoli e in parte sono libere invenzioni o riproduzioni di avvenimenti reali. Ma anche quando sono ridate con fedele aderenza alle fonti, tutte sono passate attraverso l’anima del poeta che vi ha impresso il suggello della sua inconfondibile personalità.
Il suo stile è semplice, fedele riproduzione della lingua parlata; la sua parola è tutta cose, la visione della natura pacata e serena. L’anima del fanciullo non sa vedere la Natura nemica, un’avversaria talvolta paurosa e temibile, tant’è vero che gioca anche con le cose che gli possono recar danno; Andersen, anima rimasta fanciulla fin nella sua tarda età, non può sentire la leopardiana tragicità della natura sterminatrice, ma ne vede solo il lato idilliaco e buono. Ben lontano dalla poesia lunare dei romantici, fa splendere nelle sue fiabe il sole radioso e benefico.
I personaggi delle sue fiabe, se percossi dalla sventura, piangono, ma sperano nel buon Dio, in quel Dio giusto che dà la gioia a chi più ha sofferto. Andersen non provò mai l’assillo del dubbio, mai: dopo tutte le sue peripezie continuò a credere, con immutata fede, in quel Dio in cui aveva creduto da fanciullo. Per quanto animi e vivifichi la realtà, questa è sottomessa all’onnipotenza del Dio cristiano: l’universo non è pari a Dio, ma creazione di un Dio personale, sommamente buono e misericordioso, in cui le creature confidano e devono confidare con umiltà. E quanto più sono umili, tanto più godono delle simpatie del poeta. Ma fra tutte le creature le più umili, perché più fragili, sono i bimbi, e a questi Andersen è legato con amore particolare: “Se non divenite come i piccoli fanciulli, non entrerete nel regno dei Cieli!” dice la nonna, leggendo il Vangelo alla fine del racconto La regina della neve, mentre sui due adulti, eppur fanciulli, fanciulli del cuore, splende il sole di Dio caldo e luminoso e dall’orlo del tetto pendono davanti alle finestre spalancate festoni di rose fiorite.
Nonostante questa dedizione infantile, Andersen rivela una profonda saggezza umana, una comprensione acutissima degli uomini, un intuito sempre desto che gli fa sviscerare i pregi eterni e le eterne debolezze umane. E sono queste sue concezioni, realizzate nella parola e accompagnate da un inestinguibile sorriso, che assicurano alle sue fiabe il valore di opere immortali.
Andersen non è soltanto un grande incantatore, ma è anche un grande saggio, la cui filosofia può giovare al nostro tempo. Non sbagliò Tagore, quando visitando le scuole danesi, disse: “Perché avete tante materie? Basterebbe una sola: Andersen”.
La semplicità del fanciullo, la saggezza del poeta, l’umorismo velato di ironia dell’osservatore e una profonda umanità danno alle sue favole un’enorme magia: la magia dell’infanzia, del sogno e del ricordo.
“C’è splendore di rosa sulla neve delle montagne, splendore di rosa in ogni cuore nel quale sta questo pensiero: Iddio permette che accada il meglio per noi!
Soltanto , questo non ci vien sempre manifestato, come fu manifestato a Babette nel suo sogno” (da La vergine dei ghiacci).
Ricordarsi di essere stati bambini è la chiave per riaprire senza supponenza le sue fiabe. Andersen è stato uno dei miei autori preferiti fin da piccola e ancora oggi.
Ancora oggi ricordo la nonna materna mentre mi leggeva le Fiabe e storie di Andersen e fra tutte la mia preferita era La sirenetta.
L’immenso amore per il mare, forse dovuto al fatto di essere nata nella città di mare per eccellenza, Venezia, e di avere origini paterne nella bellissima Sardegna, ha reso il mio animo sensibile al tema del mare.
Il mare è una delle componenti essenziali della mia vita e un grande protagonista della mia poesia in generale e in particolare delle sillogi “Celesti geometrie” e “Le sirene e gli inverni”, un mare che richiama il cielo in un dialogo continuo di respiro cosmico.
Ed è con una poesia tratta da “Le sirene e gli inverni” che vorrei rendere omaggio al grande scrittore e poeta danese e alla sua indimenticabile Sirenetta, la cui statua ancor oggi ci saluta dal porto di Copenhagen.
Le sirene
Dopo un lungo inverno
custode dei tuoi vasti spazi
fammi udire la solitudine
dei tuoi mari
fin dentro il suono
della notte.
Non più separato
con inganni dalle loro voci
voglio qui trattenermi
nella quiete della loro infanzia.
Nella loro ombra
crescono bimbi
come fiori
in giorni felici e ventosi.
Incanto in angoli di stupore.